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Francis Scott Fitzgerald
Il grande Gatsby
(
The Great Gatsby, 1925
)
Traduzione di Fernanda Pivano
1
Negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, mio padre mi diede un
consiglio che non mi è mai più uscito di mente.
«Quando ti viene la voglia di criticare qualcuno» mi disse, «ricordati che
non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.»
Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi
nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo.
Per questo ho la tendenza a evitare ogni giudizio, un'abitudine che oltre a
rivelarmi molti caratteri strani mi ha anche reso vittima di non pochi
scocciatori inveterati. La mente anormale è pronta a scoprire questa
particolarità e ad aggrapparvisi, quando si manifesti in una persona
normale, e così accadde che all'università fui ingiustamente accusato di
essere un politicante perché ero al corrente dei dolori segreti di strani
uomini sconosciuti. La maggior parte delle confidenze non erano
provocate: spesso ho finto di aver sonno, o di esser preoccupato, o sono
giunto a ostentare un'indifferenza ostile, quando capivo da qualche segno
inconfondibile che si profilava all'orizzonte una rivelazione intima; perché
le rivelazioni intime dei giovani, o almeno i termini nei quali questi le
esprimono, di solito sono plagiarie e deformate da evidenti omissioni.
L'evitare i giudizi è fonte di speranza infinita. Temo ancora adesso che
perderei qualcosa se dimenticassi che, come mio padre mi ha
snobisticamente insegnato e io snobisticamente ripeto, il senso della
dignità fondamentale è distribuito con parzialità alla nascita.
Ma dopo essermi così vantato della mia tolleranza, voglio ammettere
che essa ha i suoi limiti. La condotta può fondarsi sulla roccia salda o sulle
paludi infide, ma a un certo punto non m'importa più su che cosa si fondi.
Quando ritornai dall'Est, l'autunno scorso, mi pareva di desiderare che il
mondo intero fosse in uniforme e in una specie di eterno "attenti" morale;
non volevo più scorrerie ribelli e indiscrezioni privilegiate nel cuore
umano. Soltanto Gatsby, colui che dà nome a questo libro, restava fuori
dalla mia reazione: Gatsby, che rappresenta tutto ciò che suscita in me
genuino disprezzo. Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti riusciti,
allora c'era in lui qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle
promesse della vita, come se fosse collegato a una di quelle macchine
complicate che registrano terremoti a ventimila chilometri di distanza.
Questa capacità di reazione non aveva niente a che fare con
l'impressionabilità flaccida che viene classificata col nome di
"temperamento creativo": era una dote straordinaria di speranza, una
prontezza romantica quale non ho mai trovato in altri, e quale
probabilmente non troverò mai più. No: Gatsby alla fine si rivelò a posto;
fu ciò che lo minava, la polvere sozza che fluttuava nella scia dei suoi
sogni a stroncare momentaneamente il mio interesse nei dolori passeggeri
e nei fuggevoli orgogli degli uomini.
Appartengo ad una famiglia da tre generazioni agiata e influente in
questa città del Middle West. I Carraway sono una specie di clan e
secondo la tradizione discendono dai duchi di Buccleuch, ma il vero
fondatore del mio ramo è stato il fratello di mio nonno, che è venuto qui
nel '51, ha mandato un sostituto alla Guerra Civile e si è messo negli affari
vendendo ferramenta all'ingrosso e creando un'azienda che mio padre
manda avanti tuttora.
Non ho mai visto questo prozio, ma pare che gli assomigli; in
particolare, pare che assomigli al quadro piuttosto brutto appeso nello
studio di mio padre.
Mi sono laureato a New Haven nel 1915, esattamente un quarto di
secolo dopo mio padre, e poco dopo ho partecipato a quella migrazione
teutonica procrastinata, nota come la Grande Guerra. Apprezzai la
controffensiva così profondamente da ritornare irrequieto. Invece di
sembrarmi il caldo centro del mondo, il Middle West mi parve l'estremità
slabbrata dell'universo; così decisi di andare nell'Est a imparare il lavoro di
borsa.
Tutta la gente che conoscevo lavorava in borsa, perciò pensavo che
almeno un posto per me vi fosse ancora.
Tutte le zie e gli zii ne discussero come se mi stessero scegliendo
un'università, e alla fine dissero: "Be'... sss-ì" con facce molto serie ed
esitanti. Mio padre acconsentì a sovvenzionarmi per un anno, e, dopo vari
rinvii, nella primavera del ventidue venni nell'Est, come credevo, per
sempre.
Era difficile trovare alloggio in città, ma faceva caldo e io arrivavo da
una regione di ampie praterie e alberi incoraggianti; così, quando un
collega d'ufficio propose di prendere una casa in società in una cittadina
vicina, la sua mi parve un'idea straordinaria. Trovò la casa, un bungalow di
cartapesta logora, per ottanta dollari al mese, ma all'ultimo momento la
direzione lo mandò a Washington e io andai in campagna da solo. Avevo
un cane – almeno lo ebbi per qualche giorno finché mi scappò – una
vecchia
Dodge
e una domestica finlandese, che mi faceva il letto e la
colazione e mormorava tra sé frasi di saggezza finnica sul fornello
elettrico.
Mi sentii solo per un paio di giorni, finché una mattina un tale, arrivato
dopo di me, mi fermò per la strada.
«Da che parte, per
West Egg
?» chiese sgomento.
Glielo dissi. E quando ripresi a camminare non mi sentii più solo. Ero
una guida, un esploratore di sentieri, un indigeno. Senza saperlo quel tale
mi aveva conferito il diritto di cittadinanza nella zona.
E così col sole e le grandi esplosioni di foglie che crescevano sugli
alberi, proprio come crescono le cose nei film accelerati, mi venne la solita
convinzione che la vita ricominciasse con l'estate.
In primo luogo c'erano tante cose da leggere, e tanta buona salute da
strappare alla giovane aria rincuorante. Comprai una dozzina di volumi
sulla banca, il credito e le garanzie degli investimenti di capitale, che dallo
scaffale, rossi e oro come denaro nuovo di zecca, mi promisero di
rivelarmi fulgidi segreti noti soltanto a Mida e Morgan e Mecenate. E
avevo la ferma intenzione di leggere anche molte altre cose. Ero stato
piuttosto intellettuale, in università – un anno avevo scritto una serie di
articoli di fondo molto solenni e convenzionali per lo
Yale News
– e ora
tutte queste cose avrebbero di nuovo fatto parte della mia vita; sarei
ridiventato il più limitato di tutti gli esperti, "l'uomo versato un po' in
tutto". Questa non è soltanto una battuta di spirito: dopo tutto la vita si
osserva con maggior vantaggio da una finestra sola.
Fu un caso, che avessi affittato una villa in una delle cittadine più strane
del Nord America. Si trovava su quella snella isola ribelle che si stende a
est di New York e dove, fra le altre curiosità naturali, vi sono due insolite
formazioni telluriche. A una trentina di chilometri dalla città due uova
enormi, identiche nel contorno e divise soltanto da una baia, si gettano nel
tratto d'acqua salata più addomesticata dell'emisfero occidentale, quel
grande cortile sommerso che è lo stretto di Long Island. Non sono
perfettamente ovali – come l'uovo della storiella di Colombo, sono tutt'e
due schiacciate all'estremità sulla quale posano – ma la loro somiglianza
fisica deve essere fonte di stupore perpetuo per i gabbiani che vi volano
sopra. Per gli esseri non alati, il più interessante fenomeno è la loro
diversità in ogni particolare che non sia la forma e la dimensione.
Io abitavo a West Egg, quella... be', quella meno alla moda delle due, per
quanto questa sia la formula più superficiale per esprimere il contrasto
bizzarro che esisteva tra loro. La mia casa era all'estremità dell'uovo, a una
cinquantina di metri soltanto dallo stretto, presa tra due edifici enormi che
venivano affittati a dodici o quindicimila dollari per stagione. L'edificio
alla mia destra era qualcosa di colossale sotto tutti i punti di vista: una
copia accurata di qualche
Hôtel de Ville
della Normandia, con una torre da
una parte, incredibilmente nuova sotto una barba rada di edera ancora
giovane, una piscina di marmo e più di venti ettari di prato e giardino. Era
il palazzo di Gatsby. O meglio, siccome non conoscevo ancora il signor
Gatsby, era un palazzo abitato da un signore con quel nome. Quanto alla
mia casa, era un pugno in un occhio, un pugno tanto piccolo da essere
trascurabile, ma avevo il panorama sul mare, la vista parziale sul prato del
mio vicino e la rassicurante prossimità di gente milionaria, tutto per ottanta
dollari al mese.
Di là dalla baia gli edifici bianchi della mondanissima East Egg
luccicavano lungo il filo dell'acqua, e la storia di quella estate incomincia
praticamente con la sera che vi andai a cenare, in casa di Tom Buchanan.
Daisy, sua moglie, era una mia cugina in seconda dal lato paterno e Tom lo
avevo conosciuto all'università. Subito dopo la guerra passai due giorni
con loro a Chicago.
Il marito di Daisy, tra le varie doti fisiche, aveva quella di essere una
delle ali più potenti che mai avessero giocato al calcio a New Haven; era,
per così dire, una figura nazionale, uno di quegli uomini che raggiungono a
ventun anni una fama così ben definita che tutto ciò che fanno dopo perde,
al confronto, ogni importanza. Apparteneva a una famiglia enormemente
ricca perfino all'università la disinvoltura con la quale spendeva quattrini
era oggetto di biasimo – ma ora si era trasferito da Chicago nell'Est con un
tono che quasi toglieva il fiato; per esempio, aveva portato con sé da Lake
Forest una mandria di cavallini da polo. Era difficile rendersi conto che un
uomo della mia generazione fosse abbastanza ricco da poterlo fare.
Perché fossero venuti nell'Est, non lo so. Avevano passato un anno in
Francia senza motivi particolari, e poi erano stati sospinti qua e là,
irrequieti, dovunque qualcuno giocasse al polo e fosse ricco. Questa era
una sistemazione definitiva, mi disse Daisy al telefono, ma io non ci
credevo: non sapevo leggere nel suo cuore, ma sapevo che Tom sarebbe
rimasto eternamente in moto, alla nostalgica ricerca di qualche squadra di
calcio, drammaticamente compromessa nel campionato e di cui potesse
rialzare le sorti.
E così accadde che una calda sera piena di vento andai a East Egg a
trovare due vecchi amici che conoscevo a malapena. La loro casa era
perfino più complicata di quanto mi aspettassi: si trattava di un giocondo
palazzo coloniale georgiano bianco e rosso che dominava la baia. Il prato
incominciava sulla spiaggia e si stendeva per mezzo chilometro fino
all'ingresso principale della casa, scavalcando meridiane, sentieri lastricati
di mattoni e giardini fiammeggianti per innalzarsi poi, giunto alla fine,
quasi sotto la spinta della corsa, in rampicanti vivaci. La facciata era
spezzata da un fila di porte-finestre, ora rilucenti d'oro riflesso e spalancate
al vento caldo del pomeriggio, e Tom Buchanan, vestito da cavallerizzo,
era in piedi a gambe divaricate sulla veranda.
Era cambiato, dai tempi di New Haven. Adesso era un uomo sui
trent'anni, biondo-paglia, massiccio, dalla bocca dura e dai modi altezzosi.
Due occhi lucidi e arroganti gli avevano stampato in viso la capacità di
dominio e gli davano l'aria di sporgersi continuamente in avanti con fare
aggressivo. Nemmeno l'eleganza effeminata degli abiti da cavallerizzo
riusciva a celare la forza enorme di quel corpo: pareva che Tom stipasse
gli stivali lucenti fino a forzarne i lacci e quando muoveva la spalla sotto la
giacca leggera era visibile un gran fascio di muscoli. Era un corpo
poderoso, dalla forza enorme: un corpo crudele.
Quando parlava, la sua voce un po' aspra e rauca accresceva
l'impressione di prepotenza che emanava da lui. Vi era in quella voce un
tocco di disprezzo paterno, anche per le persone alle quali voleva bene; e a
New Haven vi era gente che detestava la sua aggressività.
"Ma non credere che il mio parere sia definitivo in questa faccenda"
pareva dire, "soltanto perché sono più forte e più in gamba di te." Eravamo
iscritti alla stessa associazione studentesca "degli anziani", e per quanto
non fossimo mai stati intimi ebbi sempre l'impressione che mi stimasse e
desiderasse riuscirmi simpatico con una sua premura rozza e provocante.
Parlammo qualche minuto sulla veranda assolata.
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